SCHEDE DI ACLISTI BRESCIANI ILLUSTRI

MARIA CAPODURO

(Torino 1912 - Brescia 16.12.2000 )

 

Fu membro della presidenza provinciale delle ACLI bresciane dal 1953 al 1959

 

 

La vita non è un self-service.

La vita deve essere un banchetto con i fratelli…

…a Brescia

 

                Negli anni 1945 / 1970  quando l’istruzione femminile era finalizzata  soprattutto alla preparazione delle giovani a svolgere un lavoro sicuro, in ambiente  protetto , a  Brescia e in provincia ricorreva  spesso il nome di Maria Capoduro e della sua scuola di artigianato femminile.

Chi è stata mamma o era signorina in quegli anni, ricorda che  gli abiti della scuola Capoduro erano sinonimo di una sicura eleganza, modelli che restavano attuali e di moda per anni, “capi d’abbigliamento” usciti dalle mani di ragazze e donne attente a ogni dettaglio; ancora oggi, nel 2002, le sarte che furono allieve  della signorina  Capoduro lavorano con la stessa perizia e  accuratezza.

Ma chi era Maria Capoduro?

                Maria nacque a Torino nel 1912 e nel 1922 con la famiglia venne a Brescia e frequentò una famosa scuola di taglio e confezione a Milano.

                Il lavoro e la famiglia però non potevano occupare esclusivamente le sue giornate: il suo amore  per il prossimo frequentemente la portava a condurre settimane di incontri di Azione Cattolica per le giovani, per formarle agli ideali cristiani e civili e questi incontri avvenivano nelle parrocchie e nei paesi, alla sera .

 “ L’ideale – diceva sempre – è un sogno di giovinezza realizzato nell’età matura “ .

Palazzolo, Manerbio, Botticino, Travagliato, Lumezzane…sono nomi di paesi che ritornano di frequente nei suoi appunti, paesi raggiunti anche  in bicicletta, dopo una giornata di lavoro e dai quali tornava la mattina seguente per riprendere il lavoro.

Durante la Resistenza  Maria Capoduro si impegnò sul fronte della solidarietà concreta preparando pacchi di indumenti e di viveri che poi mandava ai partigiani in Valle Camonica con altre staffette : proprio un mese prima del 25 aprile 1945 fu arrestata e messa in prigione con l’accusa di aiuto ai partigiani .

                …e quando finalmente la guerra ebbe fine,  Maria Capoduro partecipò attivamente alla formazione dell’ allora Democrazia Cristiana e si interessò alle neonate  ACLI diventandone la prima Delegata Provinciale femminile.

                Le ACLI, le tre fedeltà alla Chiesa, alla Famiglia, al Lavoro : nulla poteva rispecchiare meglio di così il pensiero e il vivere quotidiano di Maria Capoduro. E Maria ne entrò a fare parte con la disponibilità intelligente e l’entusiasmo cristiano che avevano caratterizzato i suoi anni giovanili.

Nel 1947 la troviamo nel Consiglio Provinciale e fino al 1959 è Delegata Femminile delle ACLI di Brescia, impegno che la porta a interessarsi in modo preponderante al lavoro professionale della donna.

Erano gli anni del dopoguerra : la disoccupazione, dovuta alla rapidissima trasformazione e all’inevitabile carenza di materiale, nella pur immediata ricostruzione, colpiva soprattutto le donne.

Maria si fece carico del problema e organizzò una scuola per offrire alle giovani la possibilità di una professione sicura, di prepararsi ad entrare nel settore dell’abbigliamento, uno dei più richiesti, e nel contempo impegnarle in  una quotidiana formazione spirituale nella testimonianza  degli ideali cristiani ed umani.

                Arriviamo così agli anni ’50 : la guerra è ormai lontana, la ricostruzione prosegue, le preoccupazioni quotidiane non son volte  soltanto alla semplice sopravvivenza, ma si comincia a pensare anche a cose futili , come la moda per l’estate e le novità dell’abbigliamento che arrivano dall’estero.

Notevoli iniziative della scuola, l’instancabile signorina Capoduro potè organizzale con il patrocinio delle ACLI di Brescia e dell’allora Presidente Provinciale On.Roselli, sempre molto sensibili ai problemi connessi all’istruzione e alla qualificazione professionale giovanile:  basti citare nel dicembre 1951 l’esposizione di un nuovo telaio per tessitura a mano della Casa “Ar.Tes.” di Roma con la presenza dell’inventore stesso del telaio, ingegner A. Colarossi.

Agli inizi degli anni ’50 l’ iniziativa  di Maria Capoduro era ormai conosciuta in tutta Italia e la stampa ne parlava spesso, soprattutto analizzandone l’ aspetto della specializzazione lavorativa.

Nel 1959  Maria Capoduro viene nominata “Cavaliere del lavoro” e il sindaco della città Bruno Boni così le scriveva:“l’alta onoreficenza conferitale viene a premiare i numerosi meriti acquisiti nella diuturna attività da Lei esplicata per l’affermazione degli ideali cristiani e umani a cui si dedica con ardente passione ed affetto, mente e cuore”.

               

…in  Burundi

 

                Verso la fine degli anni ’60 l’afflusso delle giovani coninciò a diminuire: l’evolversi della situazione scolastica concludeva una grande importante  fase della vita di Maria Capoduro, ma adeguandosi ai tempi e alle nuove povertà e miserie che si cominciava a conoscere molto meglio, questa instancabile donna cambiò solo la località per realizzare “ il sogno del 1945 di fare un’opera a beneficio della gioventù, la scuola di artigianato femminile continua con le ragazze di Gitega, di Muguba, di Muraj ...in  Africa”.

                Dal 1969 per breve tempo e con continuità dal 1970 al 1976, Maria fu missionaria laica in Burundi; una sua frase può sintetizzare tutto il suo cuore, il suo continuo donarsi, la sua disponibilità totale “Adagio, adagio, ho scoperto una miseria che non avrei mai immaginato : sono senza parole!”

Superando le difficoltà della lingua e con lo slancio di una nuova giovinezza, interpretò  alla lettera le sollecitazioni di Papa Paolo VI  nell’enciclica Populorum Progressio : sviluppo – giustizia – scambio – aiuto alle popolazioni meno sviluppate ,”un aiuto tale che le mettesse in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso”.

                Ma quali erano le necessità di quelle genti ? In quale modo si poteva aiutarli senza fare loro la “carità”? Una cosa realizzabile poteva essere quella di insegnare  loro un lavoro, ma quale? E a chi?

Insegnare un  lavoro artigianale a livello professionale alle giovani in Italia, in terra bresciana, nel dopoguerra, era stata una sfida, ma in confronto alla situazione africana appariva facile come una passeggiata.

Trent’anni fa, in un paese dove non si era mai visto un lavoro, dove le donne erano viste e considerate capaci solo di lavorare la terra, fare figli, restando sottomesse all’uomo, pensare di avviarle ad un lavoro che le rendesse indipendenti…tutto ciò trent’anni fa in Africa (e forse anche ora, nel 2002) era un’impresa che solo la fede e l’impegno profondo potevano tentare di realizzare. 

                Ma il fine, lo scopo di quel sogno era troppo bello : aiutare le donne, le ragazze, a prendere coscienza della propria dignità, potenzialità e capacità.

Verso la  fine del 1969 si potè cominciare a “creare” il sogno a Gitega: prove, difficoltà, gioie e dolori, affontati da Maria Capoduro e dalle amiche missionarie, con la convinzione che senza la croce non c’è merito, si diede il via a parecchie attività.

Le ragazze che avevano imparato il lavoro artigianale, nell’atelier Museke insegnavano a un gruppo di giovani donne; i missionari dicevano che era vera “promozione della donna”, aiutarla a fare da sé ( e pensare che in Europa erano gli anni della contestazione femminista!!!).

I suoi scritti di quegli anni sono uno spaccato di vita , un’immagine terribile di ciò che avveniva laggiù, in Burundi, espresso con finezza d’animo e di linguaggio e senza soffermarsi sulle crudeltà, ma esprimendo con molta sensibilità la sua compassione e la sua compartecipazione alle sofferenze fisiche e morali. Parimenti esprimeva la sua gioia di essere in mezzo a loro, scoprendo ogni giorno usi e costumi di un popolo che con semplicità e naturalezza lasciava trasparire il rispetto e la riconoscenza, la meraviglia e l’ingenuità.

Attenta alle piccole come alle grandi cose, soleva ripetere con grande fede     “Quello che noi qui possiamo fare è ben poco in confronto ai bisogni. Ma è un fermento che, nascosto nella pasta, lavora…e che farà crescere la pasta”.

Nel gennaio del suo sesto anno in Africa, però, con tanto rincrescimento e nostalgia, per motivi di salute la signorina Capoduro dovette prendere la decisione di tornare in Italia, lasciando in Burundi un bellissimo ricordo di grande stima e affetto in tutte le persone, africane ed europee, che avevano avuto modo di conoscerla e che ancora oggi la ricordano nell’ Atelier Museke.

 

…con  il  resto del mondo

 

Il contatto e la condivisione di vita e di esperienze con le popolazioni del Burundi non potevano terminare solo perché la distanza spaziale era tanta, anzi , al contrario: tornata a Brescia, Maria Capoduro continuò la sua vita per l’altro, per il fratello, allargando i confini, pur restando nella sua casa.

Nella parrocchia di Urago Mella costituì il “Gruppo Missionario” per la formazione e per la spedizione di pacchi in sostegno delle popolazioni più povere dell’ America Latina, dell’ Australia e dell’ Africa.

La gratitudine e la riconoscenza di coloro che in tanti anni beneficiarono del suo operato, e naturalmente di quello delle attive collaboratrici contagiate dal suo entusiasmo, sono testimoniate dalle innumerevoli lettere di ringraziamento: una lettera autografa le racconta tutte, quella di Suor Teresa Paghera, America Latina  settembre 1998 :”…ciò che mandate lo usiamo così : da dare a chi ha neonati e molto poveri, da vendere per aiutare la costruzione della chiesa già che la comunità sta aumentando molto e celebriamo sotto un portico che quando piove è impossibile, i ritagli di tela li uso per taglio e cucito  ed anche per aiutare i carcerati a fare lavoretti. Come vedete niente si perde…”.

Se negli anni ’35 e ’70  il nome di Maria Capoduro era molto conosciuto nella provincia bresciana per la sua opera di donna di Azione Cattolica e persona attenta alle problematiche sociali e del lavoro,  negli anni ’80 e ’90 la sua sensibilità umana senza confini e senza soste ispirò tante persone  a scrivere ai giornali bresciani suggerendo il suo nome perché figurasse tra le significative donne bresciane per dei riconoscimenti ufficiali.

                Negli appunti manoscritti delle meditazioni e delle relazioni preparate per alcuni incontri di riflessione di questi ultimi anni, troviamo spunti di notevole  immediatezza ed intuizione su argomenti di grande interesse e coinvolgimento sociale .

Sulla solitudine dell’ anziano, scriveva “non è l’ anzianità che crea il vuoto interiore, ma lo trova. La pensione, i figli si sposano, compatimento o sopportazione, disperazione…allora il deserto del cuore, la solitudine interiore causata dall’ assenza di Dio, che hai nascosto sotto tutte le occupazioni e preoccupazioni, appare in tutta la sua sconsolante realtà. Nulla di valido si improvvisa: anche una serena vecchiaia richiede di essere preparata fin dalla giovinezza.”

Ed ispirandosi a una citazione di Mounier  che vedeva nella donna la più ricca riserva di umanità, una riserva di amore capace di far esplodere la città degli uomini, la città arida, egoista degli uomini, Maria Capoduro scriveva: “viene l’ ora, l’ ora è venuta in cui a questa riserva di amore, la Chiesa e la società devono attingere, senza più indugi o tentennamenti, senza più indugi o nostalgìe. E’ l’ora della donna”.

Il 16 dicembre 2000 la signorina Maria Capoduro chiudeva la sua esistenza terrena, dopo una vita operosa, spesa nella costante  ricerca del dialogo, nel dono quotidiano della serenità e della fiducia.

 

Nel 2001, il 24 maggio, nel Salone Vanvitelliano di Palazzo Loggia, durante la XII edizione del “Premio Città di Brescia – Laura Bianchini”, il sindaco di Brescia Paolo Corsini, al termine di una attenta e precisa commemorazione di Maria  Capoduro, diceva :”…donna che non ha mai tracciato confini e segnato limiti invalicabili alla propria generosità, poiché il mondo stava nel suo grande cuore. Possiamo suggellare il senso della Sua presenza fra noi, della sua identità di donna e di maestra di vita, con l’ espressione che Lei stessa ci ha lasciato -Viver d’ amore è dare senza misura, senza aspettarsi ricompensa alcuna -”.

                                                                                                            

Renata Valzelli